Lottare per la libertà, come atto di ribellione immediato ad uno stato di cose ritenuto inaccettabile, certo, ma anche dare corpo all’aspirazione ad un rinnovamento profondo della realtà in cui si vive, per poter inseguire lì un proprio progetto esistenziale e culturale.Avere la coscienza di partecipare a qualche cosa di grande che sta accadendo, dando il proprio contributo, nel proprio campo elettivo.Chissà se Mario Nanni era attraversato esattamente da questi pensieri quando si decise ad entrare nella Stella Rossa, o quando fuggiva trafelato e sconfitto da Monte Sole, tra nemici implacabili e un presente di fango, fame e paura, o quando riapriva gli uffici comunali nella appena trasformata in municipio casa del fascio di Monzuno, o quando, infine, a Bologna, diventò il Mario Nanni cui si interessarono critici, galleristi, la Biennale di Venezia e libri di storia dell’arte.Quel che è certo è che la cifra di combattente quieto e critico non l’abbandonò mai.Impressiona riflettere sui nomi che diede o vennero dati a suoi periodi artistici, rappresentati in mostre ed esposizioni, al di là della volontà esplicita della loro designazione: Nuclei, Stratificazioni, Lavoro continuo, Mappe, Segmentazioni, Risultato provvisorio di un processo, Attraversamenti. Echi di intrecci e dinamiche inseguite e irriducibili, possedute e libere, cogenti e aperte. Quel doppio animo tosco-emiliano che più d’uno ha letto nella sua opera. Quello squarcio nella politica più profonda vissuta da partigiano.Quel che è certo è che Mario Nanni non ha mai dimenticato la Stella Rossa e le colline di Monzuno. E quando vi faceva ritorno, sempre più frequentemente con gli anni, era immancabile il riandare a “quando si fece la resistenza”. Magari incontrando Anna Menini, imparentata col Lupo, cugina di uno dei comandanti della brigata e poi moglie di un altro partigiano, Erminio Nannetti, la giovane ragazza che nel negozio di merceria della madre lo avvicinò a quella storia che sarebbe diventata anche la sua storia.